La nascita delle “punte” della danza accademica
di Flavia Pappacena
Le “punte” sono generalmente considerate una delle espressioni più significative del balletto romantico per quella immagine in bilico tra realtà e sogno che riuscirono ad attribuire alle figure femminili. Tuttavia, se le punte trovano l’espressione più intensa e suggestiva nel balletto romantico di soggetto fantastico, la loro origine va rintracciata nel periodo delle grandi riforme della fine del Settecento, quando il costume e la calzatura del balletto si adeguano alla moda “alla greca” in voga durante la Rivoluzione francese, e quando tecnica, stile e coreografia del balletto francese subiscono radicali mutamenti estetici e profonde contaminazioni da vari ambiti, tra i quali le tecniche acrobatiche dei danzatori “grotteschi” italiani.
Iniziamo dalla riforma del costume e della calzatura. Negli anni Ottanta del Settecento la moda francese manifesta in modo sempre più evidente la sua attenzione verso il “gusto greco” che si stava diffondendo in tutte le arti sotto l’influenza degli scavi di Ercolano e Pompei e dietro la spinta del pensiero neoclassico. La stessa regina di Francia, Maria Antonietta, aveva adottato per il suo abbigliamento privato la cosiddetta chemise à la reine, un abito fatto di mussola bianca fermata alla vita da un grande nastro colorato. L’abito era completato da una scarpina morbida senza tacco fermata alla caviglia con laccetti simili alle stringhe dei sandali greci: una vera e propria anticipazione della scarpetta ottocentesca.
Le danzatrici dell’Opéra di Parigi, fortemente condizionate, nel costume e nell’acconciatura, dalla moda aristocratica, si appropriarono rapidamente di questo nuovo abbigliamento liberandosi dalle lunghe gonne stratificate e dalle tradizionali calzature con tacco. Ne derivò un’innovativa libertà di movimento delle gambe e una nuova possibilità di articolazione del piede, che permisero alla danza femminile quell’amplificazione (verticale e orizzontale) verso cui già a partire dagli anni Trenta del XVIII secolo numerose danzatrici (Camargo, Heinel, Clotilde, ecc.) stavano investendo le loro risorse.
Negli anni Novanta del Settecento, mentre i danzatori dell’Opéra di Parigi si slanciavano in salti e gareggiavano in spericolate pirouettes (vedi il precedente articolo La Pirouette delle origini), le danzatrici ostentavano la nuova possibilità di alzare le gambe fino all’orizzontale (all’epoca chiamata all’altezza dell’anca – à l’hauteur de l’hanche) e condividevano con la tecnica maschile quell’azzardato (in quanto rigidamente vietato dalle norme sociali) sollevamento delle mani al di sopra della testa, che consentì di modellare le braccia nella forma ovale dell’attuale terza posizione accademica.
A questa proiezione verso l’alto partecipava tutto il corpo: il torace, innalzandosi verticalmente; le ginocchia, distendendosi al massimo; il tallone del piede a terra, staccandosi dal suolo fino a scaricare il peso solo sulla parte plantare delle dita (posizione oggi definita tre quarti di punta). Da questo alla salita sull’estremità delle dita il passo fu molto breve.
Nel decennio rivoluzionario la danza accademica, come molte altre espressioni artistiche, visse una fase di disorientamento, in cui norme e preconcetti furono messi in discussione e l’atteggiamento critico nei confronti dei “generi inferiori” lasciò il posto ad un’osservazione attenta e costruttiva. Il “genere grottesco” (acrobatico) italiano, nel passato oggetto di spietata condanna o, comunque, marginalizzato, fu considerato dalle nuove generazioni un’esperienza da studiare e un ambito da cui attingere tecniche. Pertanto, come per le pirouettes, i tours en l’air e le prese del pas de deux, anche la salita sull’estremità delle dita dei piedi praticata dagli acrobati italiani diventò uno strumento per rinnovare il vocabolario della danza accademica francese, ma anche un mezzo per evocare con effetti “illusionistici” la magia delle Menadi di Ercolano sospese nel vuoto o la levità delle Danzatrici canoviane sfioranti la terra o, ancora, il volo degli zefiri decantati dalla poesia classica. Così non deve destare meraviglia se nel 1813 sulle scene dell’Opéra fu una danzatrice, Geneviève Gosselin, a lasciare il pubblico attonito con un’inedita quanto spericolata salita sur l’extremité des pointes. E pochi anni dopo la russa Avdotija Istomina e altre affascinanti danzatrici materializzavano in poetici balletti di soggetto antico creature mitologiche animandole con vibrazioni espressive di gusto già romantico.
Dagli appunti degli anni Venti dell’Ottocento di Michel St.-Léon, padre del celebre Arthur Saint-Léon, e dal testo dell’inglese E.A.Théleur, Letters on Dancing (Londra, 1831), si ha la conferma che alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento la tecnica della salita sulla punta era ormai codificata, sebbene le scarpette non avessero ancora alcun rinforzo se non un piccolo ricamino sul davanti per evitare che la frizione sulle tavole del palcoscenico potesse usurare (spellare) il prezioso tessuto di raso.
Ma quale era questa tecnica in cui tra il 1822-1823 e il 1827 si cimentarono tra Vienna e Parigi Amalia Brugnoli e Maria Taglioni per salire sur les orteils (sulle dita)? Come testimonia Arthur Saint-Léon nel suo testo La Sténochorégraphie (Parigi, 1852), vi erano due diverse modalità. Nei passi veloci, in cui si richiedeva una salita repentina, si alzava il tallone di scatto per “balzare” direttamente sulle “dita” dei piedi. Nell’adagio, invece, per alzarsi in modo pacato a gamba tesa, si saliva “attraverso il piede” ossia passando gradatamente dall’appoggio su tutta la pianta alla mezza punta fino alla punta.
Queste due modalità continuarono a coesistere anche se ad essere maggiormente valorizzata fu la tecnica della salita scattante. A spingerla furono le ballerine italiane con i loro prodigi tecnici acclamati dalle platee di tutta Europa, tra cui i fouettés con cui negli anni Ottanta dell’Ottocento la Scuola italiana impose la sua superiorità in tutto il mondo occidentale.